giovedì 20 ottobre 2011

UN'UNICA FASE REM ( Parte II )


Venne dunque l’isola di ghiaccio senza notti né giorno. Il sogno e una sola fase Rem.
E stavolta più che immagini, alla Fenice arrivarono pa-ro-le. La giovane donna semiviva che pronunciava, forse scriveva,  parole in rima col sentimento.
Fosse una sorta di miraggio acustico, fosse vero, non importava, perché la Fenice a questo punto vacillò, ma senza perdere l’area del davanzale. Dopodiché il vermiglio, tutto, (ri)precipitò comodamente nella gola del sogno.

“Io, non volevo partire i giorni prima, e quel giorno là.

Pensavo: una a trentadue anni non può ancora andare in vacanza coi genitori.

Una che ha appena superato il borderline tra la vita e la morte, adesso, non ha bisogno di stordirsi con un altro viaggio. Vuole solo riappropriarsi della sua casa, delle sue cose, delle energie perse. Di sé.

Pensavo anche, ma questa era vanità, che piccola com’ero non avrei sopportato sguardi di sconosciuti, seppur sconosciuti, sui miei pochi chili in costume da bagno. Mi sarei sentita orrendamente fragile, più di quanto non lo fossi già.

Non credere sia stato facile radunare tutto il mio coraggio in quella valigia.

Sai, tornava spesso lo sguardo di mia madre i giorni prima della partenza. Era lucido d’ amore la volta che mi ha sorpresa senza abiti, dopo quei mesi a digiuno. Uno scricciolo. Un esserino che faceva la conta alle ossa davanti uno specchio, e piangeva:

-       “Lo capiranno tutti…”

-       “Son ben altre le cose di cui vergognarsi, ben altre. Forza!…” .

Ecco, ora posso dire in tutta onestà, che deve essere stato il ricordo di quegli occhi a decidermi davvero.

Siamo arrivati che era un sei di agosto. Roma-Briatico, quasi otto ore di viaggio: io, i miei, il mio cucciolo Joker. Portarlo con me è stato un sollievo. Non me la sarei sentita di lasciare un altro orfano in pensione. Bastava Whisky, il mio caro-odore, lontano da settimane ormai.

Ma anche questa, vedi, credevo sarebbe stata una di quelle storie da raccontarmi in lietofine.

Sono abbastanza certa di essere risultata da subito una grande snob. Ma ero sfinita e nervosa. “ Io nemmeno ci volevo venire qui!” continuavo a ribadire.

Ho sbraitato un po’ per avere una stanza come-dicevo-io! Una dove potessi godermi quindici giorni con Joker, senza ansie. Chiedevo quelle con il giardinetto. Alla fine, mi hanno dato la numero nove, il mio capriccio. E sono rimasta.

Chissà se è del tutto vero che ci sono persone capaci d’intendersi meglio senza parole…

Cerca di capire adesso: per te, per te che eri lì da quasi una stagione, ogni persona conosciuta e lasciata è stata la tua estate, un avanzo di te in viaggio verso luoghi altrui, nuove destinazioni.

Per me, l’estate, sei stato soltanto tu.

La certezza assoluta l’ho avuta quel diciotto di agosto. Era caldo, credo uno dei giorni più caldi e non ti ho visto più. Non sto a raccontarti di abbracci prima di quello. Non lo so fare, perché la verità è che non li ho mai accolti, mai sinceramente mi hanno aperto a dismisura il cuore. E non puoi nemmeno sapere il pianto che si è slacciato poi, come un nodo invincibile a chiunque.

Era caldo, e me ne stavo tra un buio, una valigia e qualcosa tra le più umane mai vissute, in quella numero nove.

Ricordo che la mattina dopo ho fatto una lunga passeggiata lì, nei dintorni. E inizialmente mi sono stupita di tanta bellezza. Mi sono stupita più che altro, di stupirmene soltanto quell’ultimo giorno! Ma poi, a ripensarci bene, ho smesso di colpo.

In psicologia lo chiamano banalmente “transfert” : un meccanismo per il quale ogni individuo tende a spostare schemi di sentimenti e pensieri relativi a una relazione significante su una persona coinvolta in una relazione interpersonale attuale. Il processo è largamente inconscio, il soggetto non comprende ovvero da dove originino tali emozioni, sentimenti e pensieri… e bla bla bla… . Nel vocabolario del Sentimento, invece, a me piace la definizione “Amore”. O comunque, una delle sue tante voci. Anche se ammetto di essere stata a lungo analfabeta. 



Avevi due solitudini al posto degli occhi, uguali alle vele nel dipinto che ti ho lasciato: “…e poi ho preso questo perché ne ho sentito la bellezza, ho sentito che ti rappresentava”. Le ho pensate proprio così, appena le ho avvistate sul quel banco di tele a Tropea : due solitudini dentro ai tuoi occhi di lupo. Viaggiano vicine ma non s’incontrano. Somigliano a malinconie.

Lo so. Lo so, che i più non credono si possa amare qualcuno che si conosce a malapena, di cui si avvertono chiari “i moti dell’anima”, ma non si sono mai vissuti nel tempo. Nel tempo e sulla pelle.

Io dico che qui la discussione diventa innanzitutto semantica: dipende dal significato che si da all’oggetto o al soggetto in questione, e in questione prima e adesso c’è solo la mia emozione. Intimamente mia. Punto.

Non spaventarti ora, ti prego. Comprendo che faccia spavento un’investitura simile. E’ come diventare Re senza averlo desiderato né essere mai appartenuto ad alcuna stirpe regale. Ma il mio è un bene che non pretende. Perché anche questo ho imparato fare: non pre-ten-de-re.



C’è una Fenice tatuata sul mio polso sinistro. Per me, è una promessa alla vita. Una dichiarazione d’amore fatta incidere sulle tracce del dolore. Che mi sono causata, per il dolore.

“… in fondo che sia Lupo o Fenice, la signora Luna è sempre la stessa, da qualunque parte di cielo la si contempli”, ti ho scritto.

Non credere sia stato facile concentrare tutta la mia Nostalgia in una sola valigia, quel diciotto di agosto. Perché è stato quel giorno che l’ho riempita tra un buio e il caldo, nella numero nove.

Chissà se ho pensato di andarmene, se ho creduto mi fosse finita l’estate in anticipo.

Chissà perché in alcuni il sentimento resta così vivo e illeso e in altri non lascia nemmeno la sua ombra.

Chissà se ci si ritrova, io e te, da qualche parte nel tempo.”



Avvertì lo stesso gelo, lo stesso inverno che soffiava sull’isola, la Fenice.  E quelle parole : “…c’è una Fenice tatuata sul mio polso sinistro…  una fenice tatuata sul…”, quelle parole, creavano un frastuono che quasi riportava al risveglio.
Il secondo senso, qui, si chiamava : Umanità e Libertà. Umanità nei gesti e tra le righe.  Libertà di lasciar andare chi si ama. 

E tutto ciò era passato. Ma in continua evoluzione.

Nessun commento: