martedì 11 ottobre 2011

IL MUNCH ( Parte I )



…schivò a striscio d’ala un’antenna, ferendosi. Dolcemente. Portava con sé troppe fatiche, troppi viaggi e ricordi. Rinunce e addii, insieme alle cose ritrovate. Il fuocoporpora quasi fiaccava sotto il sole malato, lo smog d’uomo. Ma non era tempo di soste quello.
Con uno sforzo risoluto raddrizzò la rotta, rinvigorì la scia fiammante tra materassi di nuvole galleggianti e blu. Indagò quartieri: bassi nei lussi, alti di mediocrità, ma mai più osceni degli uomini stessi che l’abitavano. Rovistò dall’alto ruderi di anfiteatri, acquedotti, colonnati e vie solcate da popoli gloriosamente antichi. Forse meno dannosi, seppur corrotti.
Le mutò in verde-acuto la vista proprio sopra una strada presso il parco trasandato, ruggine. Pascolato da cani e padroni, traffici di pecora e clochard, abbandonati su cucce in terra-cartone.
Li riconobbe. Riconobbe la strada e il parco. Dolori prima, vita fa. E qui, sull’ingresso roccioso poco prima della desolazione, si (ri)posò.
Sentì una specie d’ombra avanzare, senza muovere un fiato, un balzo. Un’espressione di morte dalla silhouette snella, l’altezza fiera. Quel giovane, lì, con seguito di cani sciolti, brancolava per polvere e ortiche a sperdersi nel parco. Sapeva meglio delle altre, stavolta, cos’era. Era un Munch, dall’urlo forte, potente, capace di stracciare la tela. Oltre che l’anima.
Per la prima volta vibrò sinistra dalla coda al becco, nelle viscere e fin dove nemmeno lei sapeva.
Si fermò. Il giovane si arrestò a centimetri di fiato da una ragazza e il suo cane, il sempre-caro-odore. Le parve proprio quella senza nonna, solo dai dettagli in volto più cresciuti, ma non ne aveva certezza.
Vide il ragazzo accarezzare il cane di lei, familiare, mentre gli altri braccavano chi una palla, chi un bastone o una suola malconcia. Ciò che la sterpaglia offriva.
Traspariva indubbia un’affinità tra i due. Non di abiti, maniere, atteggiamenti. Era per lo più qualcosa dal sapore di uva, che dove atterra è sputo di mosche a orbitare l’aria marcia. E’ tormento.
Allora, vide quell’istante farsi mesi di una stagione addietro. Li vide incontrarsi leggeri nelle mezzemaniche di luglio. Ne udì il fischio ai cani, i passi avvicinarsi e lasciarsi lo scandire di un saluto, di un come-va? Ne ascoltò simposi sulla poesia, il cinema, passioni preraffaellite all’Ofelia di Millais o surreali, impronta Magritte.
Adocchiò il ragazzo stordire a sorsate d’alcol le sere più amare, e cercarla. Per coccolarsi solitudini, sbatterle in faccia vuoti, i suoi. I loro. Una sera dopo altre. Sempre con una smorfia al dolore: stanarla, annegare nel sollievo fino al mattino, abbandonarla.

Dietro un’opera d’arte c’è l’uomo. E l’uomo non è l’artista. Solo Artista. L’uomo è spesso inquietudine, disperazione, miseria di fronte ad altri uomini. A se stesso. Ed era quella debolezza che in realtà l’artista inganna nell’eccellere di un’opera (delirando Fama) che la ragazza accoglieva, poi rifiutava.
Si annuvolò. Così, vide la ragazza annuvolarsi, una sera dopo altre.


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