mercoledì 29 agosto 2007

CIRCE NELL'EEA


"Per molti degli uomini che ho incontrato fui la Circe nell'Eea da cui fuggirono per ritornare a Itaca dove l’altra donna si consumava cucendo il filo del loro lungo smarrimento. Ora vorrei essere Penelope tra le braccia del viaggiatore in patria senza più partenze o addii, senza maghe che tessano inganni alle spalle degli amanti e versare tutto l’amore dal mio ventre gravido d’attesa."
SARA




A SYLVIA PLATH

"Ho un buon io che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti saporiti, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo".
Sylvia Plath
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"Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio.
Ai suoi azzurri volt mi rattrappii come un profeta del deserto
Le notti sgusciarono via come palpebre di lucertola:
un mondo di vani giorni bianchi in una buca senza ombra.
Una noia d’avvoltoio mi appuntava a questo albero.
Farebbe anche lui come me, se lui fossi io."
( L'impiccato - S.P. )
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[...] "Stasera, all'infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto
-con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno,
i fiori avranno tempo per me".
( Io sono verticale - S.P. )
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Sylvia Plath nasce il 27 ottobre 1932 a Jamaica Plain, un sobborgo di Boston.
11 febbraio 1963: "Poco prima dell'alba, qualche luce fende l'oscurità, lame oblique sulle ombre che s'addensano per le strade vuote e le corrono incontro. Sopraffatta, Sylvia non regge più alla tentazione. Per favore chiamare il dottor Horder, scrive su un biglietto con il numero telefonico del medico, che attacca alla carrozzina di Nick, giù in fondo alle scale, dietro il portone d'entrata. Quindi sale in casa e prepara pane e burro e due tazze di latte che posa sul comodino nella camera dei bambini. Apre la finestra, benché l'aria sia fredda, e chiude bene la porta. Sigilla ogni fessura con nastro isolante e asciugamani arrotolati, poi scende sicura verso la cucina, dove si chiude dentro, isolandosi dall'esterno con lo stesso sistema. Apre lo sportello del forno, aggiusta un panno sul ripiano per accomodare la testa e dopo aver aperto la manopola del gas, si inginocchia e affonda il viso sul morbido, gli occhi nel buio."
- ...ed io non riesco a trascrivere che questo perchè ciò che ho letto della sua biografia ferisce troppo- .
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"V'è un muro bianco obliquo al cielo
sopra il quale il cielo si ricrea infinito,
verde, assolutamente intoccabile.
Gli angeli vi nuotano, e le stelle,
anche loro indifferenti.
Sono il mio medium".
S.P.
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"La scrittura resta: va sola per il mondo. Tutti la leggono, vi reagiscono come si reagisce a una persona, a una filosofia, a una religione, a un fiore: può piacergli o meno. Può aiutarli o meno. La scrittura prova delle emozioni per dare intensità alla vita: offri di più, indaghi, chiedi, guardi, impari e modelli: ottieni di più: mostri, risposte, colore, forma e sapere. All’inizio è un atto gratuito. Se ti fa guadagnare tanto meglio. […] La cosa peggiore, peggiore di tutte, sarebbe vivere senza scrittura. E allora, come vivere con i mali minori per sminuirli ancora?"
S.P
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[...] "Presto, presto la carne
che il severo sepolcro ha divorato
tornerà al suo posto su di me,
e sarò una donna sorridente.
Ho 30 trent'anni soltanto.
E come i gatti ho nove volte per morire".
( Lady Lazarus - S.P. )

lunedì 27 agosto 2007

ADAGIO - Lara Fabian


Non so dove trovarti.
Non so come cercarti.
Ma sento una voce che
nel vento parla di te.
Quest'anima senza cuore.....
aspetta te!
Adagio.
Le notti senza pelle.
I sogni senza stelle.
Immagini del tuo viso....
che passano all'improvviso.
Mi fanno sperare ancora.....
che ti troverò.
Adagio.
Chiudo gli occhi e vedo te.
Trovo il cammino che...
mi porta via dall'agonia.
Sento battere in me questa musica che....
ho inventato per te.
Se sai come trovarmi.
Se sai dove cercarmi.
Abbracciami con la mente.
Il sole mi sembra spento.
Accendi il tuo nome in cielo.
Dimmi che ci sei.
Quello che vorrei......vivere in te.
Il sole mi sembra spento.
Abbracciami con la mente.
Smarrita senza di te.
Dimmi chi sei e ci crederò.
Musica sei.

Adagio.


NATA IL 21 A PRIMAVERA

"Non cercate di prendere i poeti perchè vi scapperanno tra le dita"
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
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Apro la sigaretta come fosse una foglia di tabacco
e aspiro avidamente l’assenza della tua vita.
E’ così bello sentirti fuori,
desideroso di vedermi e non mai ascoltato.
Sono crudele, lo so, ma il gergo dei poeti è questo:
un lungo silenzio acceso dopo un lunghissimo bacio.
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"Io non ho bisogno di denaro. Ho bisogno di sentimenti, di parole scelte sapientemente, di fiori detti pensieri, di rose dette presenze, di sogni che abitino gli alberi, di canzoni che facciano danzare le statue, di stelle che mormorino all'orecchio degli amanti. Ho bisogno di poesia, questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi."
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Amai teneramente dei dolcissimi amanti
senza che essi sapessero mai nulla.
E su questi intessei tele di ragno
e fui preda della mia stessa materia.
In me l’anima c’era della meretrice
della santa della sanguinaria e dell’ipocrita.
Molti diedero al mio modo di vivere un nome
e fui soltanto un’isterica.
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Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te le mie canzoni d'amore.

"Anche la follia merita i suoi applausi".
" Se Dio mi assolve, lo fa sempre per insufficienza di prove".
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- Da me per te -
VI RIVELO LA PASSIONE DEI FOLLI*
Bastasse una preghiera ,
un segno di croce appena accennato
a riportarmi gli angeli, che della terra sanno
più di chi la cammina,
avrebbe trono certo la quiete
in questo petto ormai covo d’affanni.
Eppure, non sarà un rosario da sgranare
tra le mie unghie rosse, né un Padre Nostro solo pensato
ad assolvermi dalla condanna d’essere carne violata
o lembo d’azzurro strappato al suo cielo,che poi cielo è…

Io, vi rivelo la passione dei folli,
anche se è più folle chi s’inganna di congedo dal delirio,
di più ancora, quelli che non sono tentati da follia
sperando immune il mondo intero
che da sempre ho immaginato...

una scatola chiusa con me seduta al bordo.
SARA
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*poesia inserita nell'antologia dedicata ad Alda Merini pubblicata da Terresommerse: "Nata il 21 marzo".

IL MIO ESISTERE A MEZZ'ARIA


Un giorno divenni poeta, poeta qualunque,
di quelli che i tramonti lasciano assorti a sognare
raduni di stelle oltre gli orizzonti e non v’è
goccia di mare dove non abbiano navigato…
Un giorno, come per la prima volta, nacqui,
partorita dal grembo della terra, figlia dei miei oscuri mali
perché un verso fosse tutto quel che sono
riscoprendo luce in solitudini sconfinate.
Così, mia fu la voce senza padrone, scagliata
in sfida contro le tempeste, delirante acqua tra i deserti
assidui nel camminare fuori e dentro un io
di richiami estinti per molti, ascoltato da pochi.
Questo il senso del mio esistere a mezz’aria
riconosciuto e deriso, come una sana follia
che mi distingue dalle masse, un divenire indefinito
rivestito da ogni fibra autentica di me che esprimo.
SARA

domenica 26 agosto 2007

TRACCE DELLA SCONOSCIUTA CHE SONO

I
Cammino spesso in mezzo alla gente pensandomi altrove.I sogni ad occhi aperti sono inventori di realtà sopra la coscienza e molto più audaci di quelli fatti nel sonno perché non cercano riparo nella gola profonda della notte ma reagiscono alla luce.Ho costruito un infinito tutto mio, tanto ridotto da tenerlo chiuso in palmo di mano.E quando lo scruto mi disegno costellazione, mappa di stelle in un’eternità d’ombra, piccola donna in mezzo al suo cielo.


II
Ad un tratto avverto il peso di sentirmi estranea e mi sorrido come si sorride ad uno sconosciuto di passaggio.


III
La notte. Preferisco la notte. All’ombra di tutte le cose vedo meglio tutte le cose.Le case, i vecchi alberi della pineta, il gatto accoccolato sul davanzale di fronte, la ragazza che passeggia per strada, i volti. Tutto mi appare più chiaro. Persino i miei stessi pensieri hanno diversa consistenza nell’oscurità. Riesco a dargli una forma e uno spazio che il giorno abolisce. Fisso il soffitto ed ecco nuvole, uno sguardo alle pareti e sono mare. Questo per me è l’evidente. Vedere laddove non si sarebbe mai guardato.Immagino la mia vita un naufragio continuo nella solitudine delle stelle se solo il sole non le nascondesse ad ogni alba sotto il suo talamo d’oro.Ah, la notte. Come preferisco la notte!


IV
Oggi ascolto la pioggia. Ne imparo il linguaggio. Ogni goccia che invoca di cadere al suolo è un po’ di cielo che si stacca per non morire solo.


V
Sull’amore. Quante pagine sprecate per amore! Non ne parlerò come altri prima di me. L’ amore è solo amore. Non dovrei giudicarne natura e fatti.Soltanto il dolore è da condannare perché il più noto giustiziere di tutti gli amanti.


VI
In un angolo del mio ufficio mi sono inventata a misura di quegli impalpabili movimenti di sogni che si agitano sulla soglia dell’essere. E sono stata altro.E ho permesso a tutti gli estranei miei coinquilini di vita di divenire altro.Mi sono sdoppiata per vedermi come non voglio essere e andare libera dove volevo abbandonandomi laggiù per qualche istante.Ho creato mondi durante la mia assenza che in questa presenza fatta di carne e di vuoto non raggiungerò mai.Ma in ognuno di loro mi sono guadagnata un posto d’abitare quando fingo di non essere io.


VII
Se non soffrissi di malinconia come di un comune mal di testa non potrei scrivere molte delle cose che scrivo. Ho cura di tutto ciò che è stato come di un amore che minaccia di restare solo e continuo a farmi ritratti di parole su fogli rubati distrattamente, dove capito.Non si comincia mai qualcosa partendo dal passato. Per questo ho comprato un diario che non aprirò né oggi né domani.


VIII
Stasera la luna ha partorito un nuovo sognatore che come tutti i sognatori la sospirerà sempre per non conoscerla mai.


IX
Ho sempre creduto che le farfalle fossero pensieri. Pensieri mandati da qualcuno in cerca di qualcun altro. Così, quando una di loro oggi mi ha seguita per tutto il cammino, perfino la solitudine che mi accompagna ora dopo ora si è fatta donna in carne ed ossa capace di prendermi per mano.


X
Non resterò qui a lungo.Amo cambiare città come il tempo l’umore, le stagioni l’abito. Essere troppo presente in uno stesso posto mi fa sentire unica, mentre io mi riconosco multipla.Ho tante di quelle persone dentro di me che spesso mi scopro “folla”. Un gran chiasso di gente dalle tante identità desiderosa di farsi conoscere. Non potrei né per decenza né per educazione evitare di lasciare i luoghi o le persone che incontro.C’è qualcosa che mi parla d’autunno alla finestra. Forse un colore, uno scherzo del vento tra i rami, una foglia che danza nell’aria, la notte che precede più rapida il giorno, un bambino che ha smesso di giocare.No, non resterò qui a lungo. Mi cambio identità come la terra la pelle.E tra questi fogli rubati distrattamente, dove sono capitata, lascio le ultime tracce di me e della sconosciuta che sono.


SARA

SARA






sabato 25 agosto 2007

POE DALL'OMBRA

"Se guarderai a lungo nell'abisso
anche l'abisso vorrà guardare in te"
E. Allan Poe

IL GATTO NERO – The Black Cat (1842-1843)


Per il più folle e insieme più semplice racconto che mi accingo a scrivere, non mi aspetto né sollecito credito alcuno. Sarei matto ad aspettarmelo in un caso in cui i miei stessi sensi respingono quanto hanno direttamente sperimentato. Matto non sono e certamente non sto sognando, ma domani morirò e oggi voglio liberarmi l’anima. Il mio scopo immediato è quello di esporre al mondo pianamente e succintamente una serie di semplici eventi domestici, senza commentarli. Le loro conseguenze mi hanno terrorizzato, torturato, distrutto, ma non tenterò di spiegarli. Per me hanno significato nient’altro che orrore, ma per molti sembreranno meno terribili che barocchi. Si potrà, forse, trovare qualche intelletto che ridurrà il mio fantasma ad un luogo comune – qualche intelletto più calmo, più logico e molto meno eccitabile del mio che possa cogliere nelle circostanze che io evoco con timore, nient’altro che una normale successione di cause ed effetti naturalissimi.
Fin dall’infanzia ero noto per la docilità e l’umanità del mio carattere. Ero così tenero di cuore da diventare quasi lo zimbello dei compagni. Ero particolarmente affezionato agli animali e i miei genitori mi concedevano di tenere una grande quantità di animaletti domestici. Con essi passavo gran parte del mio tempo e niente mi rendeva più felice del nutrire e carezzare le bestiole. Questa mia tendenza crebbe con gli anni ed anche quando divenni adulto trassi da essi il massimo diletto. Tutti coloro che hanno provato affetto per un cane fedele e intelligente comprenderanno facilmente la natura e l’intensità del piacere che se ne può trarre. C’è qualcosa, nell’amore disinteressato e capace di sacrifici di una bestiola, che va direttamente al cuore di chi ha avuto frequenti occasioni di mettere alla prova la gretta amicizia e l’evanescente fedeltà del semplice Uomo.
Mi sposai presto e fui felice di trovare in mia moglie una disposizione analoga alla mia. Avendo notato la mia passione per gli animali domestici, non tralasciò occasione per procurarmene delle specie più gradevoli. Avevamo uccelli, pesci rossi, un grazioso cane, dei conigli, una scimmietta ed un gatto.
Quest’ultimo era un animale grande e molto bello, tutto nero, e intelligente al massimo grado. Parlando della sua intelligenza mia moglie, non aliena da una certa superstizione, faceva frequenti allusioni all’antica credenza popolare che vedeva i gatti neri come delle streghe travestite. Non che fosse una cosa seria per lei; del resto io ne parlo solo perché proprio ora me ne sono ricordato.
Plutone – questo è il nome del gatto – era il mio animale preferito ed il mio compagno di giochi. Solo io gli davo da mangiare, mi aspettava quando tornavo a casa e a fatica potevo impedire che mi seguisse nella strada.
La nostra amicizia durò così per molti anni, durante i quali il mio carattere ed i miei modi, per l’azione di una diabolica intemperanza, subirono (arrossisco nel dirlo) una radicale trasformazione in peggio. Divenni giorno dopo giorno più strambo, irritabile, meno rispettoso dei sentimenti altrui. Mi permisi di usare un linguaggio irriguardoso con mia moglie; alla fine arrivai con lei alla violenza. Le mie bestiole sentirono senz’altro il cambiamento dei miei modi. Non solo li trascuravo, ma li maltrattavo. Per Plutone, tuttavia, avevo ancora un certo riguardo che mi impediva di maltrattarlo, mentre non mi facevo scrupolo di maltrattare i conigli, la scimmietta e perfino il cane, quando per caso o per affetto attraversava la mia strada. Ma il mio malessere cresceva – che razza di malattia è l’Alcool! – ed alla fine anche Plutone, ora divenuto vecchio e conseguentemente un po’ più irritabile – persino Plutone, cominciò a provare gli effetti del peggioramento del mio carattere.
Una notte, tornando a casa ubriaco fradicio, da uno dei miei soliti giri per le bettole della città, mi sembrò che il gatto evitasse la mia presenza. Lo afferrai e quello, impaurito dalla mia violenza, mi fece con i denti una piccola ferita sulla mano. La furia di un demonio si impossessò di me rendendomi irriconoscibile perfino a me stesso. Mi sembrò che la mia anima originale fosse volata via dal mio corpo ed una cattiveria feroce, alimentata dal gin, invase tutte le fibre del mio corpo. Presi dalla tasca un temperino, lo aprii, strinsi la povera bestiola alla gola e deliberatamente gli cavai un occhio dall’orbita! Arrossisco, brucio, rabbrividisco nello scrivere di questa dannata atrocità.
Quando mi tornò la ragione al mattino – sbolliti nel sonno i fumi dell’orgia notturna – provai un senso per metà di orrore e per metà di rimorso per il crimine che avevo commesso; ma fu solo un sentimento superficiale ed equivoco, l’anima non ne fu toccata. Mi tuffai di nuovo negli eccessi ed affogai nel vino tutti i ricordi del fatto.
Frattanto il gatto lentamente si era ripreso; l’orbita vuota dell’occhio aveva un aspetto pauroso, ma sembrava che egli non sentisse più dolore. Girava come sempre per casa ma, come era facile attendersi, filava via atterrito appena mi avvicinavo. Mi era rimasto abbastanza del mio vecchio cuore da provare un certo dolore per l’evidente antipatia da parte della creatura che una volta mi aveva amato. Questo sentimento si trasformò presto in irritazione ed infine, come un irrevocabile ribaltamento, comparve lo spirito della perversità. Di questo spirito la filosofia non tiene conto; ma io non sono tanto sicuro dell’esistenza della mia anima, quanto lo sono del fatto che questa forma di malvagità perversa è uno degli impulsi primordiali del cuore umano – una di quelle inscindibili facoltà primarie, o sentimenti, che governano il carattere dell’Uomo. Chi non si è trovato centinaia di volte a compiere un’azione vile o stupida, per nessuna altra ragione di quella che non doveva farlo? Non abbiamo forse una perpetua inclinazione a violare, a dispetto dei nostri migliori intendimenti, quella che è la Legge, soltanto perché comprendiamo che di questa si tratta? Questo spirito di perversità causò la mia completa rovina. Fu questa insondabile propensione dell’anima a torturare se stessa – a fare violenza alla propria natura – a compiere il male per il piacere di farlo – che mi spinse a continuare e portare a termine l’offesa che avevo inflitto all’inoffensiva bestiola. Una mattina, a sangue freddo, feci scorrere un cappio intorno al suo collo e l’impiccai al ramo di un albero; l’impiccai mentre le lacrime mi cadevano dagli occhi ed il più atroce rimorso tormentava il mio cuore. L’impiccai perché sapevo che mi aveva amato e perché non mi aveva dato alcun motivo di sentirmi offeso – l’impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato – un peccato mortale che avrebbe messo in pericolo la mia anima immortale così da porla se ciò fosse possibile al di fuori persino dalla portata della infinita misericordia del Dio Più Misericordioso e Terribile.
Nella notte che seguì al giorno in cui avevo compiuto quella crudele azione, fui svegliato dal grido «Al fuoco». Le cortine del mio letto erano in fiamme, l’intera casa bruciava. Con grande difficoltà mia moglie, una serva ed io stesso riuscimmo a sfuggire all’incendio. La distruzione fu così completa che tutto il mio patrimonio venne divorato dalle fiamme e da allora mi ritrovai ridotto alla disperazione.
Non ho la debolezza di cercare di stabilire un nesso di causa ed effetto, tra il disastro e le atrocità commesse, ma sto descrivendo una sequela di fatti e non voglio tralasciare alcun legame tra di loro. Il giorno successivo all’incendio andai a vedere le rovine. Le pareti, con una sola eccezione, erano crollate. L’eccezione era costituita da una parete divisoria, posta all’incirca al centro della casa, contro la quale prima dell’incendio era stata appoggiata la testa del mio letto. L’intonaco aveva qui resistito, in larga misura, all’azione del fuoco – un fatto che attribuii alla circostanza che era stato rifatto da poco. Di fronte a questa parete si era radunata una densa folla e molte persone sembrava stessero esaminando con grande attenzione una particolare zona di essa. Le parole «Strano!» «Singolare!» ed altre espressioni simili eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, come scolpita in bassorilievo sulla parete bianca la figura di un gigantesco gatto. L’immagine era di una esattezza sorprendente. Attorno al collo dell’animale c’era una corda.
Quando vidi la prima volta questa apparizione – non posso classificarla diversamente – la mia meraviglia e il mio terrore furono enormi; ma successivamente la riflessione mi venne in aiuto. Ricordai che il gatto era stato impiccato in un giardino adiacente alla casa. Dopo l’allarme per l’incendio, quel giardino si era immediatamente riempito di folla – qualcuno doveva aver staccato l’animale dall’albero e averlo lanciato, attraverso una finestra aperta, dentro la mia camera. Questo gesto era stato compiuto probabilmente con l’intento di svegliarmi. La caduta delle altre pareti aveva compresso la vittima della mia crudeltà dentro l’intonaco ancora fresco, la cui calce con le fiamme e l’ammoniaca della carcassa, aveva poi composto l’immagine come la vedevo.
Sebbene io spiegassi così alla mia ragione, se non completamente alla coscienza, l’evento che ho illustrato, esso non mancò di impressionare profondamente la mia fantasia. Per mesi non riuscii a liberarmi del fantasma del gatto e durante tale periodo affiorò nel mio animo un mezzo sentimento che sembrava ma non era rimorso. Arrivai a dolermi a tal punto della perdita dell’animale da mettermi a cercare, nei ritrovi malfamati che ora frequentavo abitualmente, un’altra bestiola della stessa specie ed in qualche modo simile all’aspetto, in grado di prenderne il posto.
Una notte, mentre giacevo in una taverna più che malfamata, mezzo intontito, la mia attenzione fa attratta all’improvviso da qualcosa di nero che riposava sulla sommità di una delle enormi botti di gin e di rum, che costituivano l’arredamento principale del locale. Stavo guardando da molto tempo e, con mia sorpresa, non riusciva a capire di che cosa si trattasse. Mi avvicinai a toccarlo con una mano. Si trattava di un gattone nero, della stessa taglia di Plutone, somigliante a lui sotto ogni aspetto, ad eccezione di uno. Plutone non aveva un solo pelo bianco in tutto il mantello, mentre questo gatto aveva una macchia bianca di contorno indefinito che gli copriva quasi interamente il petto.
Appena lo ebbi toccato, si alzò immediatamente, fece le fusa, si strofinò alla mia mano, felice del mio interessamento. Era proprio la creatura che stavo cercando, quindi proposi al padrone del locale di comprarlo: ma questi non ne rivendicò il possesso – non lo conosceva affatto – non l’aveva mai visto prima. Continuai ad accarezzarlo e quando mi apprestai a tornare a casa, l’animale mostrò l’intenzione di accompagnarmi. Glielo permisi ed ogni tanto lungo la via mi fermavo per accarezzarlo. Quando giunse a casa si trovò subito a suo agio e divenne immediatamente il beniamino di mia moglie.
Da parte mia, invece, sentii subito sorgere dentro di me una cupa antipatia per l’animale. Era proprio il contrario di quello che avevo previsto, ma – non so come e perché – la sua evidente predilezione per me, mi procurava piuttosto fastidio e disgusto. Poi, piano piano, l’avversione ed il fastidio sfociarono nell’amarezza dell’odio. Evitavo l’animale, ma un certo senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà, mi impedivano di maltrattarlo. Per molte settimane non lo picchiai né gli usai altre forme di violenza, ma, gradualmente, arrivai a guardarlo con insopprimibile ripugnanza e a sfuggire la sua odiosa presenza come la peste.
Quello che, senza dubbio, aumentò il mio odio per la bestia, fu la scoperta, fatta il mattino dopo il suo arrivo in casa, che anche lui era privo di un occhio come Plutone. Questa circostanza lo rese, invece, più caro a mia moglie, che, come ho già detto, possedeva in alto grado quell’umanità di sentimenti che una volta erano una mia peculiare caratteristica nonché la fonte dei miei più semplici e più puri piaceri.
Ma la predilezione del gatto nei miei confronti sembrava crescere con la mia avversione. Seguiva ogni mio passo con una tenacia che è difficile far comprendere al lettore. Quando sedevo, si accucciava sotto la mia sedia o si metteva tra i piedi a rischio di farmi cadere o piantava i suoi lunghi aguzzi artigli nelle mie vesti per arrampicarmisi fino al petto. Mi veniva allora voglia di distruggerlo con un colpo, ma mi tratteneva dal farlo il ricordo del mio precedente delitto e ancor più – lasciatemelo confessare – il cieco terrore che mi ispirava la bestia.
Non era esattamente un terrore fisico, anche se ho difficoltà a definirlo diversamente. Quasi mi vergogno a confessare – sì anche in questa cella di delinquenti, quasi mi vergogno a confessare – che il terrore e l’orrore che l’animale mi ispirava è stato alimentato da una specie di chimera tra le più difficili da concepire. Mia moglie aveva richiamato la mia attenzione, più di una volta, sulla conformazione della macchia bianca, della quale vi ho parlato, e che costituiva la sola visibile differenza tra questa strana bestia e quella che io avevo distrutto. Il lettore ricorderà che questa macchia era sì grande, ma aveva originariamente contorni indefiniti. Ora a grado a grado, quasi impercettibilmente, anche se la mia ragione si sforzava di respingere la cosa come assolutamente fantastica, la macchia aveva finito per assumere una forma ben precisa e distinta. Essa era la precisa rappresentazione di un oggetto che rabbrividisco solo a nominare – e per questo soprattutto, avevo ripugnanza e paura del mostro, del quale avrei voluto liberarmi se ne avessi avuto il coraggio – era adesso, dico, l’immagine di una cosa orribile, spaventosa, la forca – oh! la lugubre, terribile macchina dell’Orrore e del Crimine, dell’Agonia e della Morte!
E ora io ero veramente misero al di là della peggiore miseria dell’Umanità. Una bestia bruta – quella della quale avevo sprezzantemente distrutto il compagno – una bestia bruta causava a me – a me, uomo creato a immagine e somiglianza d’Iddio – un così insopportabile dolore! Ahimè! Né di giorno, né di notte ebbi più il conforto del riposo! Durante il giorno la creatura non mi lasciava solo un istante, e durante la notte, ad ogni ora, mi destavo da sogni di inesprimibile orrore, per trovarmi il fiato caldo della cosa sul volto ed il suo enorme peso – come di un fantasma notturno incarnato che non ero in grado di scrollare via – eternamente incombente sul cuore.
Sotto la pressione di tali tormenti, quel poco di buono che c’era ancora in me scomparve del tutto. Pensieri malvagi, i più neri e i più malvagi dei pensieri, divennero i miei soli padroni. La rudezza abituale del mio carattere divenne odio per tutte le cose, per tutta l’umanità, così che degli improvvisi, frequenti e incontrollabili scoppi di una furia alla quale ciecamente mi abbandonavo, divenne vittima sempre più frequentemente, ahimè!, la mia povera moglie, che, paziente, sopportava tutto senza lamenti.
Un giorno ella mi accompagnò, per una qualche faccenda domestica da sbrigare, nella cantina del vecchio edificio nel quale la nostra povertà ci costringeva ad abitare ed il gatto, seguendomi giù per la scala, mi fece quasi ruzzolare a capofitto, irritandomi fino all’esasperazione. Afferrata un’ascia, dimenticando, nella mia furia, la paura infantile che aveva sempre trattenuto la mia mano, vibrai all’animale un colpo che, se fosse disceso su di lui come volevo, sarebbe risultato mortale. Ma il colpo venne fermato dalla mano di mia moglie. Il suo intervento mi trascinò in una furia ancora più demoniaca; svincolai il braccio dalla sua stretta e le affondai la scure nel cervello. Ella cadde senza vita sul posto senza emettere un lamento.
Compiuto l’orrendo delitto, mi accinsi con grande determinazione al compito di nascondere il corpo. Sapevo di non poterlo rimuovere dall’edificio, né di giorno né di notte, senza correre il rischio di essere scorto dai vicini. Mi vennero in mente tanti progetti. Per un momento pensai di tagliare il corpo in tanti pezzi e di distruggerlo con il fuoco, poi di scavare una fossa nel pavimento e seppellirvelo, e ancora di gettarlo nel pozzo del cortile – di chiuderlo in una cassa, camuffandola come se contenesse della merce e incaricando poi un facchino di portarla via. Infine scelsi quello che mi sembrò l’espediente migliore tra tutti quelli pensati. Decisi di murare il cadavere in una parete della cantina, come si legge facessero i monaci del Medio-Evo con le loro vittime.
La cantina sembrava particolarmente adatta a tale scopo. Le sue pareti erano state costruite alla buona e intonacate da poco con una malta grossolana che non si era indurita per effetto dell’umidità dell’ambiente. Inoltre in una delle pareti c’era una sporgenza dovuta forse a un falso caminetto o focolare, che era poi stato riempito e reso somigliante al resto della cantina. Non avevo dubbi di poter estrarre facilmente i mattoni, inserire il cadavere, e murare di nuovo in modo che nessuno potesse mai scoprire qualcosa di sospetto. Non avevo sbagliato i calcoli. Rimossi con una leva i mattoni, deposi poi con cura il corpo puntellandolo contro la parete interna e con poca fatica ricostruii la struttura del muro tale e quale era prima. Mi procurai calce e sabbia e con ogni possibile precauzione preparai un intonaco che non poteva assolutamente essere distinto dal vecchio e lo distesi con ogni cura sulla nuova parete di mattoni. Alla fine fui molto soddisfatto del lavoro. Tutto quadrava, la parete non presentava la minima traccia di manomissione. Asportai con la massima attenzione tutti i detriti dal pavimento e mi guardai intorno trionfante, dicendomi: «Qui almeno il mio lavoro non è stato inutile».
Il mio successivo atto fu quello di ricercare la bestia che era stata causa di tanto grave sciagura, perché avevo deciso di metterla a morte. Se ci fossi riuscito in quel momento, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla sua sorte; e invece l’astuto animale, allarmato dalla violenza della mia collera, evitò di comparirmi davanti. E’ impossibile descrivere il profondo senso di sollievo che mi pervase per l’assenza della odiata creatura. Non si fece vivo neanche durante la notte e quindi almeno per una volta, da quando si era introdotto in casa mia, dormii profondamente e tranquillamente; sì, dormii perfino col peso del delitto sulla coscienza!
Passarono il secondo e il terzo giorno senza che il mio tormentatore tornasse. Respiravo di nuovo come un uomo libero. Il mostro, terrorizzato, era fuggito via per sempre e non lo avrei più visto! La mia felicità era al culmine! La colpa del mio tenebroso misfatto non mi turbava più di tanto. Mi avevano rivolto domande alle quali avevo risposto con disinvoltura. Perfino le indagini avviate, non avevano dato alcun esito ed io guardavo ormai con sicurezza alla mia futura felicità.
Il quarto giorno dopo l’assassinio, una squadra della polizia irruppe inaspettatamente nella mia casa per eseguire una rigorosa ispezione. Ci nonostante mi sentivo sicuro del nascondiglio scelto e non mostrai il benché minimo imbarazzo. Gli agenti chiesero che li accompagnassi nella loro ispezione, che non lasciò inesplorato né un angolo né un cantuccio. Alla fine discesero per la terza o la quarta volta nella cantina. Non un muscolo mi tremò; il mio cuore batteva calmo come quello di chi dorme innocente. Passeggiavo su e giù per la cantina, le braccia incrociate sul petto, aggirandomi qua e là. I poliziotti si mostravano del tutto soddisfatti e si preparavano ad andarsene. La gioia che mi riempiva il cuore era troppo intensa perché potessi trattenermela dentro. Bruciavo dal desiderio di dire qualcosa, di trionfare, ed anche di rendere ancora più marcata la loro convinzione della mia innocenza.
«Signori», dissi alla fine mentre la squadra saliva le scale, «sono lieto di aver dileguato i vostri sospetti. Vi auguro buona salute ed un po’ più di cortesia. Tra l’altro, signori, questa – questa è proprio una casa ben costruita». In preda alla voglia matta di dir qualcosa, non mi rendevo conto di quanto andavo blaterando… «Posso dire che questa è una casa costruita in modo eccellente. Queste pareti – ve ne andate, Signori? – queste pareti sono costruite solidamente». E qui, in un eccesso di spavalderia, colpii pesantemente con un bastone che avevo in mano proprio il tratto di muro dietro il quale era celato il cadavere della sposa del mio cuore.
Possa mai Iddio proteggermi e liberarmi dalla zanna dell’arcidiavolo! – non si era ancora spenta l’eco del mio colpo di bastone, che una voce rispose dall’interno della tomba! – con un lamento, dapprima smorzato e rotto, come il pianto di un bambino, salito poi rapidamente ad un lungo, intenso, continuo urlo, assolutamente inumano, bestiale, – un ululato – un grido sconvolgente, per metà di orrore per metà di trionfo, quale avrebbe potuto venire solo dall’inferno, unitamente dalle gole dei dannati nella loro agonia e dei demoni esultanti nella dannazione.
Di quello che mi passò per la testa, sarebbe assurdo parlare. Sentendomi svenire, mi appoggiai alla parete opposta. Per un attimo i poliziotti rimasero immobili, in preda ad una sorta di irrazionale terrore. Subito dopo una dozzina di robuste braccia presero a demolire la parete, che cadde tutta insieme. Il cadavere, in avanzato stato di decomposizione, intriso di sangue rappreso, stava eretto davanti agli occhi degli spettatori. Sulla sua testa, con la rossa bocca spalancata, con l’unico occhio di fuoco, stava l’orrenda bestia la cui astuzia mi aveva portato al delitto e la cui voce rivelatrice mi aveva consegnato al boia.
Avevo murato il mostro dentro la tomba.

Edgar Allan Poe


SONO STANCA DEGLI AMANTI


Non bada a spese il tempo

che per amore offre conti

di giorni monchi

a calde labbra in posa.

Maledetto tempo,

in marcia lenta o riposo d’ozio

che non allieta.

Maledetta me, che raschio

ore dal fondo delle notti

dove il dormire non ha trono

e marchio a rosso le labbra

come sgualdrina preda

di voglie insonni.


Sono stanca degli amanti,

del loro accavallarsi carni,mani,

sguardi tesi a riprendere

passi in lontananza,

di “amen” giurati - smentiti

in procinto di qualche “se”.

Sono stanca – sai - di quei conti

senza sconti che il tempo offre

per amore d’una storia monca,

mai diletta, mai fiorita.

Ho sperperato ogni seme

del mio male al vento…

e adesso – il resto – lo paghi tu.
SARA

DE PROFUNDIS


"Sono una donna libera. Libera nei pensieri e confinata nei gesti in un corpo che sono un "io" su misura per tutte le anime che possiedo.Spero voli che poi non so se prenderò e come un passeggero in attesa, seguo le lancette dell'orologio che sottrae istanti ad una partenza immaginaria. E quando questo accade mi prende una nostalgia folle di quello che non vedrò o non avrò mai quasi avessi vissuto tutto e perdessi anche il sogno.A volte il cuore mi cade con un tonfo in un abisso di ricordi che sono ogni storia di cui ho stordito il presente, mentre con una mano cerco di riprendere il battito per collocarlo di nuovo in questa gabbia d'ossa in produzione d'echi.Se guardo dentro lo specchio avverto "vuoto", ma non un'assenza di colori e oggetti, no, una mancanza di me che non basta a riflettermi piena come mi sento. Mostro spesso ciò che non sono, o ciò che sono in frammenti scomposti che poco conosco o conosco bene e nascondo. Osservo l'andamento delle folle estranee da un buco scavato nel terreno come i bambini le formiche, e tra le folle mi sento estranea, invisibile e indifferente al pari di certe stelle che si sono spente eppure occhieggiano ancora al resto del mondo.Sì, mi popolano mille solitudini - forse tracce di vite finite in qualche zona di un destino consumato - che alzano voce grossa di mare nei giorni cupi quando il sole si corica dietro una nuvola oscurando tutto il mio angolo di cielo, compassionevole e freddo sopra la testa di una presenza qualunque. "

"Ci sono notti che il pensiero non basta e cerca “parola” a definirgli i tratti. Ci sono notti che il pensiero è immaginazione pura e l’immaginazione è la misura del mio pensiero che vuole morire nella verginità di fogli per caso.Pa-ro-le, datemi parole: fluttuanti, vacue, indicibili, sporche, graffianti… pa-ro-le. Il senso del non senso dei pensieri è il parlare; è lo scrivere che è testimonianza.Questa notte mi percepisco attraverso quel che scrivo, ed io scrivo anche quando non ci sarebbe nulla da dire. La noia che mi appartiene è un vuoto stagnante nell’essere e lo assorbe come una spugna sotto il freddo scorrere della solitudine. Così io mi servo di pa-ro-le. Sul mio letto di niente, accanto ad una finestra dischiusa su strade vestite d’impressioni notturne, sotto la luna in veglia all’affrettarsi di passanti, mi privo per sempre di emozioni di carta.Sono il giocoliere nel circo dei miei pensieri, sono il traduttore vivente tra me e qualcosa che mi sfugge, superiore alla materia, un qualcosa che talvolta si posa sulla mia testa come un cappello antico e mi rende distinta.Pa-ro-le. Somigliano a biglie che ruzzolano in diagonale, verticale, orizzontale, seguendo la traccia di una mano che opera per sottile ingegno di un’idea.In queste notti, le notti sono amanti accoccolate sul ciglio della mia anima che sorseggia gocce d’infinito in ascensione di galassie invisibili, e sulla superficie del cuore galleggiano ancora le speranze non fatte carne, come gabbiani feriti, incapaci dell’arroganza di un volo."

SARA

SEGNI PARTICOLARI: PESSOA


"HO SEMPRE RIFIUTATO DI ESSERE COMPRESO, ESSERE COMPRESO SIGNIFICA PROSTITUIRSI. PREFERISCO ESSERE PRESO SERIAMENTE PER QUELLO CHE NON SONO. IGNORATO UMANAMENTE CON DECENZA E NATURALEZZA".


Il poeta è un fingitore.

Finge così completamente che arriva a fingere

che è dolore il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,nel dolore letto sentono proprio

non i due che egli ha provato, ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo gira, illudendo la ragione,

questo trenino a molla che si chiama cuore.



"Sono un uomo ferito. E me ne vorrei andare. E finalmente giungere, Pietà, dove si ascolta L'uomo che è solo con sé.
Io, non so chi sono. Io non so che anima ho. Quando parlo con sincerità non so con quale sincerità parlo. Sono variamente altro da un io che non so se esiste. Sono fedi che non ho. Mi prendono ansie che ripudio. La mia perpetua attenzione su di me mi indica tradimenti d'anima di un carattere che forse non ho, e neppure essa crede che io abbia. Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi che distorcono in riflessi falsi un'unica interiore realtà che non è nessuno ed è in tutti. Io mi sento vivere vite altrui, in me, incompletamente come se il mio essere partecipasse di tutti gli uomini. E mi sento esiliato in mezzo agli uomini. Ma per essi sto in pena. Non sarei degno di tornare in me? C'è fra me e il mondo, una nebbia che mi impedisce di vedere le cose come sono veramente - come sono per gli altri. Lo sento.Ho popolato di nomi il silenzio. Ho fatto a pezzi cuore e mente Per cadere in servitù di parole? Non ho che superbia e bontà. Resterò l'Inferno di essere Io. Non sarò ne Dio, ne uomo, ne mondo, puro vuoto, infinito di Nulla cosciente, paura senza nome, bandito dallo stesso mistero, dalla stessa Vita. Abiterò eternamente il deserto morto di me, errore astratto della creazione che mi ha lasciato indietro. Arderà in me eternamente, inutilmente, l'ansia del ritorno a essere. Regno sopra fantasmi. O foglie secche, Anima portata qua e là...No, odio il vento e la sua voce Di bestia immemorabile. Non potrò sentire perché non avrò materia con cui sentire, non potrò respirare allegria, o odio, o orrore, perché non ho nemmeno la facoltà con cui sentire, coscienza astratta nell'inferno del non contenere niente, assoluto, eterno! Senza Universo. Vuoto di Dio... "

"Un giorno in cui avevo definitivamente rinunciato — era l'8 marzo 1914 — mi sono avvicinato da un alto comò e, prendendo un foglio di carta, mi sono messo a scrivere, all'impiedi, come faccio ogni volta che posso. E ho scritto circa trenta poesie di seguito, in una specie di estasi di cui non riesco a capire il senso. Fu il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai averne un altro come quello. Cominciai con un titolo: O Guardador de Rebanhos (Il Guardiano di greggi). E quello che seguì fu la nascita in me di qualcuno a cui diedi subito il nome di Alberto Caeiro. Scusate l'assurdità di questa frase: il mio maestro era sorto in me".

Sono un guardiano di greggi.
Il gregge è i miei pensieri.
E i miei pensieri sono tutti sensazioni.
Penso con gli occhi e con gli orecchi
e con le mani e i piedie con il naso e la bocca.
Pensare un fiore è vederlo e odorarlo
e mangiare un frutto è saperne il senso.
Perciò quando in un giorno di calura
sento la tristezza di goderlo tanto,
e mi corico tra l'erba
chiudendo gli occhi accaldati,
sento tutto il mio corpo immerso nella realtà,
so la verità e sono felice.
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"Dicono che fingo o mento quanto io scrivo. No: semplicemente sento con l’immaginazione, non uso il sentimento. Quanto traverso o sogno, quanto finisce o manco è come una terrazza che dà su un’altra cosa. É questa cosa che è bella. Così, scrivo in mezzo a quanto vicino non è: libero dal mio laccio, sincero di quel che non è.
Sentire? Senta chi legge".
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E’ l’amore che è l’essenziale,
il sesso è solo un accidente.
Può essere uguale o differente.
L’uomo non è un animale,
è una carne intelligente
anche se a volte, malata.


Voglio, avrò —
se non qui,
in altro luogo
che ancora non so.
Niente ho perduto.
Tutto sarò.



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La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto. La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna. Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
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"Il poeta non ha biografia: la sua opera è la sua biografia.
Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia, non c'è niente di più semplice.Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte.Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei".


FERNANDO António Nogueira PESSOA
13/06/1888 - 30/11/1935.



SOGNAI LA MIA GENESI*


Sognai la mia genesi sotto un cielo di luna a falce,
inghiottita da luce che è dolore di vita e resa,
pianto di un fragile corpo testimone d’amore.
Io, mi sognai in carità di carezze,su dolci note di carillon
me ne andai dal nido custode,involucro scelto a sigillo d’essere.
Gene impazzito, gettato nel mondo solitaria e compagna
del mio peso a esistere,come ombra cinese in greggi d’anime
muovendomi verso dove ricomincia il vento.
Sempre nel mio ventre d’ortica venne
urlando il mare, gobba di tutta la mia vita in spalla,
raminga tra chi mai mi strinse intera, inventai universi di niente.
…E mi sognai, partorita da una ferita di carne,
inghiottita da luce - dolore di vita e resa,
sotto umida terra a scaldarmi le ossa
in continua genesi divina io, mi trovai.
SARA

* titolo di una poesia di Dylan Thomas

venerdì 24 agosto 2007

IO, NON MI CHIAMO


Mi sono dimenticata dietro un’identità
presa in prestito per qualche giorno, per poche ore.
IO, NON MI CHIAMO.
Non serbo nome tanto a lungo
da fissarsi sulla pelle.
Zingara tra albe e tramonti,
me ne vado per questa fiera d’ignota
vita scippando volti che so bene tradirò.
Sono tutti. Nessuno è me.
E sempre estranea mi cerco,
cercando poi che...

SARA


GENIALE FOLLIA

"Non esiste alcun ingegno se non mescolato alla pazzia"
Petrarca – Epistola metrica a Zoilo

Nel corso della storia, la follia ha avuto anche conseguenze positive. Si pensi, ad esempio, alla pazzia di Friedrich Nietzsche che grazie ad essa concepì idee straordinarie come quelle contenute nello Zarathustra o epigrammi di grande potenza espressiva negli aforismi ( "Di tutto quello che uno scrive, io amo solo quello scritto col sangue. Scrivi col sangue e vedrai che è spirito. Chi scrive col sangue non vuole essere letto, ma imparato a memoria" F.N.). Oppure si pensi ancora al grande Van Gogh, pittore olandese, che operò per dieci anni dipingendo meravigliosi capolavori quali "La Stanza da letto", "Campo di Grano con Volo di Corvi" e numerosi autoritratti, e dopo aver compiuto queste opere si sparò con un colpo di pistola alla tempia, morendo a soli trentasette anni. Forse pazzo non lo era, ma, come dirà lui, mirava a compartecipare lo spettatore delle sue sensazioni e del suo disagio interiore.“Gli artisti, i poeti, vivono una condizione di GENIO e FOLLIA che spesso coincidono” ( Diderot).

"Perché tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica e politica, artistica e letteraria, hanno un temperamento melanconico, alcuni a tal punto da essere perfino affetti dagli stati patologici che ne derivano?" ( Problemata XXX di Aristotele ).
Il termine : “melanconia” deriva dal latino melancholia che a sua volta trae origine dal greco: mélas che significa nero e cholé che significa bile, quindi: "bile nera". La melanconia è un "umore nero", intesa come un dolce oblio, una leggera venatura di tristezza che pervadeva il carattere, rendendolo profondo ed orientato alla pace ad all'introspezione. E’ ritenuto da molti pensatori che tale stato d’animo favorisca l’essere originali, in quanto permetterebbe l’accesso agli stati meditativi. Numerosi studi sulla creatività sottolineano l’importanza dell’esperienza della malattia mentale per lo sviluppo di quelle attitudini immaginative e d’introspezione che sono alla base della produzione creativa.



“Amo tutto ciò che è statotutto ciò che non è più,e con le spalle sempre


rivolte al domani m’arresto in questo nulla che reclama d’andare presso le stazioni del Destino.


Sono come un clochardai margini della notte che sorseggia gli ultimi ricordidal fondo d’una bottiglia e soffro d’un male che non ha curase non nei sogni dal nome malinconia”.



Da sempre l'uomo è stato inserito in un complesso sistema di relazioni sociali, in cui ognuno trova una sua precisa collocazione. Ma questa condizione “obbligata” porta inevitabilmente all’uniformità, a dei "modus vivendi stabiliti”. Da ciò deriva negli adulti una perdita di originalità, di fantasia, di capacità di creare, tutte facoltà che invece il bambino possiede, perché il suo pensiero è indipendente, non soggetto a influenze e pressioni esterne. Il suo comportamento è spontaneo, naturale: si stupisce di fronte alle piccole cose di ogni giorno, esplora, si pone numerosi interrogativi, su tutto ciò che lo circonda. Sono proprio l’originalità, la creatività, l’eccentricità rispetto alla tradizione che caratterizzano quelle personalità che chiamiamo geni/artisti. Personalità cioè che sembrano associarsi ad un più alto rischio di sofferenza psichica, sofferenza che a volte può arrivare all’evoluzione più drammatica: la morte per suicidio ( questo rischio di mortalità, risulta distribuito in maniera ineguale a seconda dell’attività creativa, ci sarebbe un rischio maggiore fra: poeti e letterati rispetto a pittori e scultori, e ancor più basso sarebbe fra gli architetti).
L'artista presenta perciò le stesse caratteristiche del bambino. Non si ferma all'apparenza del mondo, non ha vincoli sociali da rispettare e si ribella. Pensiamo a Baudelaire, tra i più autorevoli esponenti del simbolismo francese, che con opere quali: "I Fiori del male", denuncia l'ipocrisia della società in cui viveva scandalizzando per le sue idee liberali molti esponenti della Francia per bene dell'epoca: “Accendi la pupilla alla fiamma dei candelabri e accendi la brama nello sguardo della gente più rozza. Tutto di te mi dà un piacere morboso e irrequieto; sii ciò che tu vuoi, notte nera come rossa aurora. Non ho una sola fibra del mio corpo tremante che non gridi: O diletto Belzebù, io ti adoro!”( L’Indemoniato ) ; “ Ho chiesto alla veloce lama di farmi riconquistare la libertà, ho detto al perfido veleno di venire in soccorso della mia vigliaccheria. Ahimè, che il veleno e la lama m'hanno disdegnato, e m'hanno detto: "Tu non sei degno di venir sottratto alla tua maledetta schiavitù, imbecille! Se i nostri sforzi ti liberassero, i tuoi baci risusciterebbero il cadavere del tuo vampiro." ( Il Vampiro).Gauguin, pittore contemporaneo di Van Gogh, che sceglie di rifugiarsi in Polinesia e qui, in questo mondo ancora "selvaggio" troverà l'ambiente necessario per dare espressione alla sua arte. Alla morte dell'artista, le sue opere ritenute troppo scandalose per le nudità e le pose dei soggetti ritratti, vennero bruciate per ordine del vescovo del luogo. Per la follia collettiva dei totalitarismi europei del 900, infatti, un numero impressionante di testi furono bruciati e i loro autori contrari all'ideologia del regime, uccisi o deportati in campi di sterminio e nei gulag sovietici.Il poeta tedesco Heinrich Heine, per descrivere l'assurdità e la ferocia della "nuova inquisizione”, aveva affermato: «Dove si bruciano i libri, un giorno si bruceranno anche gli uomini». Sono questi solo alcuni esempi per dimostrare come la pazzia abbia due volti, uno che porta alla più bieca distruzione, l'altro alle migliori creazioni e scoperte del genio umano.
Un disagio psichico, quindi, può essere occasione di giungere a contatto, pur nella sofferenza, con aspetti del proprio Sé che altrimenti resterebbero ignoti, come sono in effetti sconosciuti alla maggior parte delle persone ritenute "sane". Potrà forse “confortare” chi soffre di problemi mentali scoprire che molte patologie, quali depressione maniacale, asocialità, ossessioni, anoressia, hanno attanagliato molti geni quali: Rilke, Kafka, Goethe, Proust, Rousseau, Schumann, Pavese, Virginia Woolf . L'arte in questi casi, si fa dunque, terapia e espressione di una genialità spesso tormentata o malata.Già Otto Rank ( allievo prediletto e poi ripudiato di Sigmund Freud ) riteneva che la creazione artistica traesse spunto dai conflitti irrisolti dell’inconscio, che trovavano soluzione formale in una forma sublimata: l’oggetto artistico. Sappiamo bene che la malattia mentale compromette non solo l’adattamento socio-relazionale, ma anche la capacità stessa di comunicazione tra mondo interno e realtà esterna. L’evento creativo in una certa misura, ripristina la capacità d’interagire con l’esterno, in quanto attinge alla dimensione simbolica dei vissuti interni. Ed è proprio questa felice unione fra il magma polivalente dei simboli e i limiti imposti dalla tecnica che permette il ripristino del potenziale di comunicazione che la malattia mentale ha interrotto ( ad esempio l’associazione simbolica del delirio può trovare senso e ordine nell’immagine visionaria espressa dalla parola poetica ).
Si può dunque dedurre, alla luce di quanto riportato, che l’espressione artistica ( intesa in ogni sua singola forma ) non è che “l’aspetto sano” o l’espressione più felice di quello che è il volto oscuro, in alcuni casi, della follia?



“Questo il senso del mio esistere a mezz’aria riconosciuto e deriso,



come una sana follia che mi distingue dalle masse,



un divenire indefinito rivestito da ogni fibra autentica di me che esprimo.”


Sara