sabato 8 ottobre 2011

il lupo

… svoltò i fianchi appena sbocciati di una collina di ciliegi, bucò la soglia rossa del tramonto lasciandosi un’eco, come di cuore morto.

Il cane se l’era ripreso l’uomo. Un richiamo, un guinzaglio e l’uomo venuti dalla pioggia, dopo la vallata di girasoli, di margherite in viole. Fissò quella sagoma trascinarlo via, immobile. Orme nel fango, coda tra le zampe. E gelò nel fuocoporpora, quel po’ che la vista permise loro l’addio. Un altro.

Diresse il viaggio verso sere di montagna imprudenti, sole. Il mezzobusto di luna non schiariva che greggi d’alberi imbiancati per i pendii o intorno ai fossi. S’insinuò tra i rami di quello più alto, il più saggio che la natura sopravviveva in mezzo a quel deserto inginocchiato dal ghiaccio. E di nuovo si (ri)posò.

Sentì un ringhio di lupo avanzare. Dapprima felpato, quasi nemmeno turbasse l’aria. Via via più cupo, più nero, fino all’albero. Gli occhi giallo-ocra la serrarono in una morsa da preda. Balzò. Il lupo balzò più in alto che poté, ferendo il corpo di pellecorteccia, quel saggio secolare al centro del niente. Uscì sangue e resina, e schiuma dalle fauci sempre aperte nel ringhio nero.  Poi, soltanto all’estremo della rabbia,  una resa.

Si ricordò del lupo, estati prima, luoghi fa. Ne ricordò la voce serena stordita a tratti da folle in vacanza e balli a due, cinque, dieci… comitive di mani e piedi sulle stesse note, sullo stesso dire. Le riaffiorò  quella certa solitudine senza ritorni né lamento che lo segnava, propria delle vele in altomare sotto cieli a tinte Turner. Intuì identica la debolezza aldilà dell’espressione schiva, severa. Delle movenze alfa tra genti adolescenti. Come la malizia dei pomeriggi persi in giochi d’acqua, di cabaret nell’arena, felicemente piena.  O anche di quel giorno che lei soffriva i suoi limiti rannicchiati su un bordo piscina, e lui le tese sguardo e attenzione, simili ad una carezza.



Non fu più notte né giorno sull’isola di ghiaccio, in mezzo al niente. Sopra l’albero, così ai piedi. Fu capire, senza cenni, che un abbraccio può fermarsi infinito in un tempo che non raggiunge mai il Domani. Fu capire che un Lupo e una Fenice svolgono sorti distanti, smarriti e fedeli ai loro luoghi natali, ma sotto una stessa unica Luna, da qualunque terra cardinale la si contempli. Di nostalgia.

Era uno Chagall, ma di voli, capre o violinisti verdi, assenti.

Sottomisero entrambi il capo a quel solo sapere. Puntò gli occhi giallo-ocra nel buio, il lupo. Il ringhio spento, l’andare lento, oltre le nebbie a banchi fitte.

Allora, gonfiò il petto caldo in un sospiro. Le uscirono grida come vapore di taglio netto al gelo. Distese un ventaglio di piume fuocoporpora arroventando quel deserto ghiacciato. E se ne andò. Lontana da lì, dalle solitudini verso il Destino, la Fenice, ancora se ne volò.




Nessun commento: