mercoledì 12 ottobre 2011

PARTE II


C’era rabbia, rifiuto, stordimento. Seduzione. Un piangere con gli stessi occhi, superficie contro superficie d’iride, rovistando a mani nude l’origine precisa della desolazione, di tutte le desolazioni prima, non solo quella. Le loro.
Era intendere ogni singola rivoluzione dal bassoventre. Strofinare la pelle fino alle ossa, a ciò che non si è mai osato toccare. L’affinità del primo incontrarsi: non di abiti, maniere, atteggiamenti. Ma di uva che marcisce al suolo, l’orbitare di mosche impazzito.
Sentì. Alla fine, la ragazza sentì bene tutto il Panico che devastò Munch in un tramonto-sangue come tanti, ad Ekeberg. Quell’urlo rimasto vago all’udito, il tempo di una vita giovane e in fuga. Soltanto la sua.

Allora, ascoltò un respiro di morte avanzare. Senza muovere un muscolo, un balzo.
Non più dall’ingresso roccioso. Non più dal parco, polvere, ortiche ma dall’anima della ragazza senza nonna, esattamente un tutt’uno. Un impasto deforme: l’Anima e la Morte.
Fece quasi per distendere il suo ventaglio fuocoporpora lontano da lì, la Fenice. Tuttavia, restò. Gonfiò il petto in una boccata d’aria piena, come chi sta per annegare. E planò, silenziosa,  gli stessi sentieri di lei. Stesso sole che scansa mattine, stesse zavorre di vuoto a comprimere le sere.
Nella sua casa, la ragazza, non aveva più incenso da bruciare, cane da allevare di imperativi e carezze, o un sorriso semplice. Per chiunque. Per sé.

sono crollata ( la data la conosco perfettamente ) l’ 11 di maggio. Avrei troppo da dire riguardo ai motivi, ai giochi perversi che la mente crea a volte per lasciarti scivolare giù, sempre più giù. Tutti i miei fallimenti, di anni, caduti sulle spalle in un tonfo solo. Massicci, insostenibili. Ogni suono di me che non ho voluto ascoltare. Una vita giovane e intera passata a fuggire, a stordire il Dolore. Ad evitare essenzialmente di confessarmi l’handicap più grande. L’incapacità di abbandonarmi all’Amore, di Amarmi, Crescere, Differenziarmi… di essere ME. Ciascuno di questi limiti, piccolezze, (ri)conosciute dopo tanto proteggermi, in un richiamo disperato, accolto, rifiutato. L’ombra dalla silhouette snella, l’altezza fiera. Il ragazzo con seguito di cani sciolti, tra la polvere, le ortiche. Le mie braccia.
Ecco, da un 11 di maggio  ho smesso di Vivere ( se ho vissuto mai ), di ridere, di badare a me, al mio caro-cane, al mio lavoro…  a qualsiasi cosa avesse importanza prima e credevo l’avesse sempre.
Ho trascorso giorni in una casa buia senza più muovere un respiro, uno sguardo, privandomi del cibo, a poco a poco. Sostenuta di continuo dai miei genitori, parenti e qualche amico coraggioso che non temeva il mio disagio. E in quel periodo ho purtroppo compiuto gesti contro la mia persona che non hanno fatto altro, giustamente, che allarmare ancora di più le persone a me care.
Potevo continuare a “compiacermi” di quello stato: sempre accudita, sorvegliata, confortata ( regredendo in realtà ) oppure decidere, come ho fatto, di portarmi in un luogo dove altri mi potessero curare senza più ingombrare tanto pesantemente le vite attorno alla mia, riprendendomela.
Sono rimasta in un clinica psichiatrica sei giorni. Di più non ho resistito.
Per quanto fosse stata mia volontà essere lì, per quanto fossi informata sugli effetti degli psicofarmaci ( mai presi fino a quel momento ) non credevo esistesse sul serio quel mondo artificiale  scoperto con amara meraviglia e di cui per tre giorni ho fatto parte.
A parte il primo, di giorno, in cui dottori, dottoresse, tirocinanti intenti a preparare tesi sulla Depressione ( … quella brutta parola ) non hanno fatto altro che ospitarmi da una stanza all’altra ascoltando, considerando, scandagliando una (in)coscienza che, alla fine, avevo già rovistato da me ( in buona parte ), dal secondo in poi ero un perfetto e orrendo zombie, imbottita di psicofarmaci tramite flebo, a mattina e a sera, senza più nessuno a rivolgermi un: “come ti senti?” “come stai?”.
Ah! come si Sente Profondamente l’importanza di un’attenzione così in simili circostanze.
Per ben tre giorni, dicevo, passavo dal letto ( dormivo ), al bar della clinica, al giardino, senza più un’anima. Nemmeno con  la mia compagna di stanza riuscivo a scambiare due parole. Nemmeno con mia ma-dre, con cui mi esprimevo al telefono, sì, ma a mo-no-sil-la-bi.
Ebbene, al quarto giorno, effetto dello psicofarmaco che si stava assestando o meno, ho cominciato a riprendere una certa lucidità.
Vagavo per i corridoi, tra le stanze, il giardino, e notavo solo gente senza sguardo, senza quasi Identità, Personalità. Annullati. Finiti. Solo qualcuno a volte era preso da parte da uomini e donne col camice bianco, per raccontarsi.  La maggior parte di loro, però, se ne restava zitta e sola in un angolo, a fissare vuoti.
E’ stato allora che ho cominciato ad avvicinarmi cautamente ad alcuni/e per parlare, chiedere da quanto fossero lì. Da quanto, soprattutto, qualcuno si occupasse di loro. Non solo tramite aghi ficcati in vena o due pasticche, ma U- MA- NA- MEN- TE, con il dialogo, la comprensione, gesti di carità. Le risposte erano più o meno le stesse. Chi da più o meno tempo era stato abbandonato al farmaco, senza più potersi esprimere, tirar fuori grazie al sostegno di chi avrebbe dovuto: emozioni, pensieri, stati d’animo… o più semplicemente: la loro Storia.
Forse perché quando qualcosa brucia la devo tirar fuori spesso violentemente, senza troppo sondare le conseguenze, tanto più ne sono convinta, ma ho cominciato da quel giorno a tormentare tutti ( SignoraDirettrice del reparto compresa ) per farmi mandare via da lì. Perché le Persone non possono essere trattate da non-persone per non creare problemi, evitare responsabilità nel caso di gesti insani. Perché la Dignità è l’unica cosa che prima di ogni altra in un posto come quello si dovrebbe recuperare, e non perdere. Ma questo, QUE-STO, non lo si può fare con un farmaco che ti azzittisce la coscienza.
Non sono una sprovveduta, so molto bene che alcuni casi gravi come la schizofrenia, depressione bipolare etc etc… necessitano sicuramente di cure farmacologiche, ma il Potere della Comunicazione, del Contatto Umano, della Comprensione, dello svuotamento del Dolore tramite una elaborazione lenta ma consapevole, non hanno prezzo.
Volevano tenermi lì altre tre settimane. Come ho già detto sono riuscita a farmi lasciare libera dopo sei giorni.”

Era un Dalì. Una “persistenza-della-memoria” contro ogni resistere ma di nessun elemento, Surreale.


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