giovedì 6 ottobre 2011

Sicché...

… si diresse verso l’oceano, l’acqua verdefondo. Portava con sé la fatica tutti i viaggi, non solo quello. Portava vento, profumo di limoni, fragore di temporali estivi, caldo d’Africa e qualche stazione fresca vestita a neve, mentre un lampo rosa e di luce guizzò all’orizzonte distraendo la rotta dei pensieri. La inclinò più a est, su uno scoglio alto tra la costa, e si posò.  Ammirò schiene bianche di vele scivolare lungo l’alba, giri in aria di gabbiani e sabbia scoprirsi a macchie chiaroscure.
Sentì un profilo di donna avanzare, senza muovere un fiato, un balzo. Ne seguì il gioco di piedi scalzi sulla battigia, quando si nascondono e riaffiorano sollevando ciò che il mare trova, restituisce. Vide piroettare la superficie con l’orlo del vestito sopra il ventre in attesa. La vide portarsi madreperla dalla caviglia alla mano snella e un altro passo, un altro ancora, (ri)nascerla verso nidi di case e uomini su, per la cresta rocciosa.
La ricordò piangere, quella donna. Un tempo prima, spiagge fa.  Ne ricordò il corpo chiuso tra gambe e braccia, contorto, deluso, arrabbiato. Un Klimt , originale, ma senza oro. Senza colore.
Gonfiò il petto di quella mattina limpida, di quelle che se ne perde la memoria, e le uscì un grido vivo dal becco. Stirò allora un ventaglio di piume fuocoporpora arroventando il mare. E se ne andò. Lontana da lì. Dall’alba e dal suo sapore, la Fenice, ancora se ne volò.




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