venerdì 14 ottobre 2011

Parte III


Viaggiarono settimane, mesi, tempo. Il fuocoporpora e la ragazza storpia di sorriso per chiunque. Per sé.
La casa, il cane, l’incenso da bruciare. Tutto a peso morto ormai, tutto un blabla di gente cara che andava, veniva, (di)sperava una ripresa.  

“Credo che i bambini vedano mostri nascosti nel buio, ma che i veri Mostri il buio ce l’abbiano nascosto dentro…” 

La casa, il cane, l’incenso da bruciare. Di- giu-no.
Circa quaranta chili di pelle ed ossa che faticano una strada, i giorni, le sere. La disperazione, che armeggia cieca una lametta contro il polso sinistro e una parola, u-na, che soltanto accennata può affannare l’aria: VI-TA, Vita..., divenire eco nel nulla.. Vita, vit… vi... e cadere. Tronca.
Tutto un peso morto ormai, tutto un blabla di gente cara che andava, veniva, sperava una ripresa.  

“… una vampira che da un bacio succhia-sangue all’uomo impotente?! Ma che dipinto angosciante quello! Di chi è? ”.

Sempre Munch.
In una stanza d’ascolto se ne stava la Donna, bella come una mamma. La mammabuona delle 16 e 45, civico 111, ogni mercoledì. Uno di quei riferimenti puntati spesso, un bivio a marcia parallela: piede zoppo da una parte; passo scalzo, scomposto, libero, dall’altra.
Eros e Thanatos, Resa o Vita. Blabla di gente cara. E fa-me.
Allora, la Fenice, infiammò spedita la distanza fino al secondo davanzale. Accomodò la vista su due poltrone a specchio: la donna Freudiana, la ragazza affamata. E si riposò. 

“ Credo si possa gioire per qualcuno se dice di aver perso dieci chili ma non nel caso in cui prima ne pesava appena cinquanta…”

All’incirca quaranta chili di pelle ed ossa su una poltrona a specchio che svuotavano l’anima in parti mal distribuite: un po’ alla gente cara, un po’ alla donna Freudiana. A se stessi, meno.

… credo ci siano cose che tanto più si rischiano più si negano. Credo che pensarsi in terza persona alleggerisca se si è un tutt’uno con la morte. Se non si è.

E fu un abbraccio, il primo, tra la mammabuona, la ragazza affamata e la morte.
Forse l’ incipit a quel senso di realtà che andava sfumando tratti perché lì, nell’abbraccio, c’erano parole, insopportabili quanto il Dolore: “ E’ tutto VE-RO. Sei TU, sei TU che MUO-RI!”.
Uscì come un lamento dal civico 111. Una donna giovane e semiviva. I suoi quaranta chili in strada che faticano la verità, come il panico che devastò Munch un tramonto qualunque, ad Ekeberg.
L’urlo, smisuratamente ( r )accolto fin sotto la pelle, le ossa. Nella carne.

 “ Solo pochi giorni dopo ho realizzato dav-ve-ro che la vita, la MIA, era frantumi: la casa, il lavoro, gli studi abbandonati. Il mio cane ancora in una pensione.
Non me lo potevo più permettere. Ho deciso che ogni cosa posseduta e adorata doveva tornare insieme a Me Stessa, che si era persa troppo a lungo, tanto lontano.
Passeggiavo sul pontile di Ostia un sabato sera, e mi meravigliavano le luci del porto, la penombra del mare, la spiaggia sola. Tutta quella gente che si abbracciava, salutava, sorrideva, strillava. Ragazzi che si amavano. E ho sentito come una ferita dolce dentro. Ho sentito che non volevo più morire. Che valesse la pena continuare a Vivere anche una frazione d’ istante per gioirmi Piena, così. Ho compreso, per una volta e tutte, di essere Fortunata, che c’era un Dio che mi amava come potevo, dovevo farlo io. Io con me.  
Ho scelto. E mi sono stretta alla Vita.”

Ancora un Dalì. Un sole (ri)nascente tra due labbra d’uovo. L’utero che sgrana Amore, ogni suo singolo elemento, e Reale. 

“…credo che l’odore della salvia sia tra i più buoni mai sentiti. Come quello delle cosce di mia madre quando venni al mondo, di cui non ho memoria.”




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