martedì 18 ottobre 2011

Un'unica fase Rem ( parte I )


Scese una stanchezza infinita sulle ali, la coda, il fuocoporpora tutto della Fenice, ancora lì, sul davanzale comodo. Avvertì i suoni intorno farsi dapprima len-ti, poi simili a rimbombi che ondeggiano strade, case, molecole d’aria. Ogni dimensione reale che i sensi potessero cogliere.
Sbiadì in verde terso la vista. Rallentò di fiato in sospiri calmi, il cuore. E cadde.
Cadde in un sogno che è passato, presente, futuro. Un’unica fase Rem.

Allora, (ri)visitò la bambina ai banchi  del mercato, il passo ribelle, le mani grandi, il foulard, e fate, dame pastello, un fuoco a gas.
Vide i suoi venticinque anni affannare piani di scale, un diciassette ottobre, inizio d’ autunno. Dita che intrecciano altre dita. Un palmo di burro tra quelli della ragazza, in ginocchio tra due distanze: un’anziana e la bambina sottosilenzio, per troppo tempo. Tutta un’infanzia ritrovata in quel gesto. Che fosse l’ultimo, poco importava.
E non più il mercato, le buste pesanti di limoni, pere, uva, lattuga. Ma la casa della nonna e ogni angolo di superficie in attesa: un sorriso incorniciato giovane, il legno antico, i piatti, animaletti di porcellana, soprammobili ricamati ad uncinetto e tazzine, mille e mille volte digitate all’aroma di caffè. Le fedi all’anulare sinistro. Poi, il respiro.
Respiro che accresce ogni spasmo del corpo, frantuma il mattino, singhiozza, chiede: a-ria… a-ria…a r i a…, si arrende. Per debolezza, perché così è la vita. Di nuovo, la nonna senza vita, la ragazza senza nonna. Ogni angolo di casa camminato da un sole pieno e di lei, ormai assente.
Il senso, fu il  primo ricordo di un Amore non amato in tempo. La prima intuizione di morte. Amore, morte e la poesia. Scoperta come un brusio d’anima istantaneo. E da quel giorno, un diciassette d’autunno, versi a mano sciolta sparpagliati dalla ragazza su fogli, quaderni, diari virtuali qualunque.


Erano gli anni delle bambole
di pezza da stringere al petto e cullare
in un lento, con te, che a sera
indovinavi la forma delle nuvole
già spiando stelle tra una fessura
e l’altra d’indaco appena scoperta,
che se ci ripenso era poesia anche quella.


Avevo le tue mani per sperare
in un angolo di terra più morbido,
benedetto da Dio, che le stagioni
non consumano o mutano piano,
perché non è l’addio a ferire
ma il non averti amato in tempo.


Erano, fossero sempre quegli anni,
dei tuoi occhi di cielo ombrati
da malinconia all’eco di un ricordo lontano,
troppo per non morirci dentro sognando…
E adesso tra i ricordi sono io a frugare,
sino a riviverti com’eri, sino al tuo ultimo respiro
che ancora conservo come la cosa più cara che ho.


Ecco, sì, proprio questi versi dedicò alla sua nonna, stagioni dopo. La nonna che scriveva poesie già molto prima di lei. Quelle, che non le lesse mai.

-       Che stai facendo?
-        Mmmmmm..? Nulla. Scrivevo un po'...
-       Guarda! Fuori piove.
-      Allora dai, vieni alla finestra che facciamo le nuvole col fiato.    Brava, così! Ed ora disegnamo… disegnamo le facce di Stanlio ed Olio, ti va?
-       Come? Così?
-       Bravissima! Così.
-       Guarda, guarda! Ma sta piovendo fortissimo…
-       Allora… adesso disegnamo un ombrello. Eccolo qua!
-       Mmmmmm…senti…
-       Sì…
-       Ma la gente senza ombrello si bagna?
-       …sì
-       E noi invece siamo fortunate perché ce ne stiamo al sicuro, qui?
-       …tu sei fortunata per tantissime ragioni. Io, perché tu sei qui.
-       Ti voglio bene, nonna!


E tutto ciò era un indizio di passato. Compiuto.






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